Io che non ho conosciuto gli uomini

Titolo: Io che non ho conosciuto gli uomini
Autore: Jacqueline Harpman
Pagine: 176
Formato: Copertina rigida
Editore: Blackie
Trama
In un luogo non meglio identificato, trentanove donne e una ragazza vivono rinchiuse in un bunker sotterraneo, sorvegliate da guardie mute e armate. Nessuna di loro sa perché si trovi lì, né da quanto tempo. L'unica a non avere ricordi del mondo esterno è la protagonista, una giovane che non ha mai conosciuto la libertà, né la società, né gli uomini. La narrazione si sviluppa interamente attraverso il suo sguardo: uno sguardo vigile, privo di riferimenti, che osserva e registra con una lucidità quasi clinica. Quando un evento improvviso rompe la monotonia claustrofobica della prigionia, le donne si ritrovano a confrontarsi con un mondo esterno che è ben lontano da quello che ricordavano – o immaginavano. Il romanzo si trasforma così in un viaggio fisico, e interiore, dove la protagonista cerca di dare un senso alla propria esistenza, in un universo privo di risposte. La sua voce, asciutta e riflessiva, ci accompagna in una lunga meditazione sulla solitudine, sull'identità, sulla memoria e sull'essenza stessa dell'essere umano.


Temi e riflessioni

Pubblicato nel 1995, Io che non ho conosciuto gli uomini di Jacqueline Harpman è un romanzo che pur, appartenendo al passato, sembra scritto per il nostro presente o, peggio ancora, per il nostro futuro. La sua forza sta nella capacità di interrogare l'essere umano al di là del tempo, dello spazio e della società. La protagonista, una giovane donna che non ha memoria del mondo esterno e non ha mai conosciuto gli uomini, diventa il simbolo di un'identità spogliata di ogni riferimento. È un foglio bianco che si scrive da sé, giorno dopo giorno, in un mondo che non offre risposte né appigli. La solitudine che attraversa il romanzo non è solo fisica, ma esistenziale. Anche circondata da altre donne, la protagonista è irrimediabilmente sola, perché non condivide con loro né esperienze né linguaggio. È una condizione che risuona profondamente in un'epoca come la nostra, dove l'iperconnessione spesso convive con un senso di isolamento profondo. Il tempo, nel bunker e poi nel mondo esterno, è scandito solo dal corpo: un corpo che cresce, invecchia, si trasforma, ma che non ha più funzione sociale, né specchio in cui riflettersi. In questo senso, l'autrice ci costringe a riflettere sul nostro rapporto con il corpo, con l'immagine, con la materia che ci costituisce. Quando la libertà arriva – improvvisa, assoluta – non è liberazione. In un mondo svuotato, la libertà diventa possibilità e condanna insieme. È lo spazio in cui la protagonista può scegliere chi essere, ma anche quello in cui deve fare i conti con tutte le lacune che la sua precedente vita le ha lasciato. Il titolo stesso è una dichiarazione potente: io che non ho conosciuto gli uomini. È una frase che racchiude l'intera riflessione sulla condizione femminile, sul genere e sull'identità. Cosa resta della femminilità quando viene privata di ogni ruolo sociale, razionale, riproduttivo? È una domanda importante, che anticipa molte delle discussioni contemporanee sul corpo, sul genere, sui ruoli, e sulla libertà. Questo romanzo non offre risposte. Non consola, spiega poco e niente. Ma proprio per questo, lascia più campo a riflessioni profonde e necessarie.

Opinione personale
Leggere Io che non ho conosciuto gli uomini è stata un'esperienza intensa e profondamente toccante. Non è un romanzo che si lascia alle spalle con leggerezza: è silenzioso, lento, quasi ipnotico. Ma proprio in questa lentezza, in questa voce narrante così potente ho trovato molti spunti di riflessione. Quello che mi ha più colpita è la capacità dell'autrice di costruire un'intera esistenza a partire dal vuoto. La protagonista non ha passato, non ha affetti, non ha nemmeno un nome. Eppure, pagina dopo pagina, prende forma davanti ai nostri occhi, si fa carne, pensiero, coscienza. È come assistere alla nascita di qualcuno, ma al contrario: non c'è un'origine, solo il presente e il suo futuro. Mi sono sentita spesso disorientata, come se camminassi in un paesaggio sconosciuto esattamente come la protagonista. Ma è proprio questa sua reticenza, che rende il libro così potente. Chi legge questo romanzo dovrà convivere con il mistero, con l'assenza, con l'idea che il senso non sia qualcosa da scoprire, ma da costruire, lentamente. Confesso che per me, che amo gli "spiegoni" e le narrazioni che tirano le fila, questa mancanza di risposte è stata inizialmente frustrante. Avrei voluto sapere di più capire il perché di certe scelte, avere almeno un indizio. Ma forse è proprio questa assenza che fa la differenza perché ti costringe a pensare e crearti le tue idee. Lo consiglio a tutti, non solo agli amanti del genere distopico – perché sì, in fondo di questo si tratta – ma chiunque senta il desiderio di immergersi in una lettura profonda, essenziale, capace di scavare sotto la superficie delle cose.
Note dell'autrice
L'autrice del romanzo, Jacqueline Harpman, è una figura affascinante e complessa. Nata a Etterbeek, in Belgio, nel 1929, visse l'infanzia segnata dall'invasione nazista: la sua famiglia, di origine ebrea, fu costretta a rifugiarsi a Casablanca, in Marocco, dove Harpman iniziò gli studi superiori. Torna a Bruxelles dopo la guerra, si laureò in Medicina e lavorò come psicanalista per tutta la vita. Questa doppia anima – scientifica e letteraria – attraversa profondamente la sua opera. Ha scritto oltre venti romanzi, tutti influenzati dalla sua formazione psicoanalitica, ricevendo numerosi riconoscimenti. È scomparsa nel 2012, lasciando un'eredità letteraria che continua a interrogare e ispirare.






 

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